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Foodora: quando il lavoro non è un lavoro

daMassimiliano Formentin
9 anni fa
in Senza categoria
Tempo di lettura: 3 minuti di lettura
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Home | Foodora: quando il lavoro non è un lavoro

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Quando si può considerare lavoro un lavoro? E’ la domanda che si pongono i dipendenti di Foodora, startup basata sulla consegna a domicilio, accusata di sottopagare i propri lavoratori, di fatto facendoli lavorare in un lavoro che non è un lavoro.

Indice

Toggle
  • Foodora
  • Il lavoro che non è un lavoro
    • I COCOCO
  • Lo stipendio che non basta
    • Il problema è la mancanza di garanzie
  • Non lavoro, ma Gig Economy
    • Non chiamatela Sharing Economy
    • Potrebbero interessarti anche
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    • USB-C in Europa, tutti gli smartphone dovranno adeguarsi dal 2024
    • Io la chiamo Gig Economy
    •  

Foodora

Di Foodora probabilmente parleremo meglio in un altro articolo.

In ogni caso, Foodora è una startup tedesca, nata un anno fa (2015 ndr), opera in 10 paesi in tutto il mondo fra cui l’Italia, nel nostro paese l’attività della startup si concentra a Milano e Torino, presto è prevista l’apertura in nuove città.

Foodora si basa sul settore alimentare, serve i pasti dai ristoranti partecipanti al cliente tramite i rider, persone che svolgono il ruolo di corrieri, arriveranno da te nel minor tempo possibile, tramite bici o scooter.

Il lavoro che non è un lavoro

I COCOCO

C’è un piccolo problema, i rider non sono ufficialmente dipendenti di Foodora, ma vengono assimilati come Co-Co-Co (Collaboratori Coordinati e Continuativi) ovvero come dice l’INPS:

I collaboratori coordinati e continuativi (c.d. co-co-co) sono anche detti lavoratori parasubordinati, perché rappresentano una categoria intermedia fra il lavoro autonomo ed il lavoro dipendente.

Essi lavorano infatti in piena autonomia operativa, escluso ogni vincolo di subordinazione, ma nel quadro di un rapporto unitario e continuativo con il committente del lavoro. Sono pertanto funzionalmente inseriti NELL’ORGANIZZAZIONE aziendale e possono operare ALL’INTERNO del ciclo produttivo del committente, al quale viene riconosciuto un potere di coordinamento dell’attività del lavoratore con le esigenze dell’organizzazione aziendale.

Lo stipendio che non basta

Il problema? A consegna i Riders di Foodora guagnano, 3 euro lordi, o netti 2,70; cifre ridicole per chiunque conosca il mondo del lavoro, la protesta dei precari del settore ha portato buoni frutti, ma solo a Torino dove l’azienda ha deciso di aumentare l’incasso a 4 euro lordi.

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[Tweet “Foodora ed i Riders da 3 euro lordi, ecco il lavoro che non è un lavoro”]

Quei soldi che Foodora propone non sono abbastanza, questo si sa, basta fare due calcoli

  • Può capitare di non elaborare consegne per un considerevole periodo di tempo
  • Proviamo a fare una stima:
    • Le ore di lavoro su Foodora variano da un minimo di 20 a un massimo (non limitato però) di 40 alla settimana.
    • In una città come Torino o Milano, quanti pasti vuoi consegnare in un’ora, due o tre al massimo, consideriamo anche il tempo per ritirare il piatto e per consegnarlo e dovremmo più o meno esserci, sono circa 8,1 euro netti all’ora per 40 ore massime di lavoro settimanale sono 324 euro, in un mese composto da quattro settimane sono 1296 euro, dove però vanno tolti i costi di acquisto, consumo e manutenzione di smartphone e mezzi di trasporto, elementi necessari per svolgere questo tipo di lavoro.

Il problema è la mancanza di garanzie

Iniziamo da “ti piace andare in bicicletta”, frase con cui Foodora propone al potenziale candidato di iniziare a lavorare con (ehm, per) loro. Il vero problema è la garanzia, no non quella per il cliente, ma per il lavoratore, dopotutto si lavora con il bel tempo ma anche con pioggia, vento, nebbia, grandine e neve, non sono ammessi ripensamenti, infatti il licenziamento è sempre dietro l’angolo. La richiesta dei Riders è di essere rispettati come lavorati e non come collaboratori, e di avere tutti i diritti che ne conseguono.

Non chiedono molto vero? Beh, la politica non è dalla loro parte, su Lettera43 scrivono:

Il Jobs act renziano, nonostante gli annunci, non ha fatto altro che peggiorare la situazione.
Se non altro perché «ha dato più potere alle aziende», è il ragionamento.
In modo strisciante si è fatta avanti una delegittimazione del concetto stesso di lavoro.
E l’idea che si possa lavorare anche gratis, per fare curriculum, o per arrotondare. Come hanno sostenuto tra le righe i responsabili italiani di Foodora.

Non lavoro, ma Gig Economy

Non chiamatela Sharing Economy

D’altro canto, Foodora si propone come lavoretto, e qui il gioco è detto fatto, si passa dal concetti di Sharing Economy a quello di Gig Economy, la differenza è abissale.

La Sharing Economy prevede la condivisione di un servizio, la gig economy prevede la creazione di lavoretti per permettere alle persone di arrotondare.

Io la chiamo Gig Economy

Di Gig Economy si tratta, e come tale va trattata. Chi cerca trova? Forse, nel caso di Foodora sembra mal concepita l’idea di lavoretto, si passa dalla concezione di lavoro stesso al capo che ti obbliga a cambiare il turno. In ogni caso, una volta accertato il lavoretto e per quanto ci si possa immedesimare nei Riders, si può constare che nessuno obbliga nessuno a lavorare per Foodora e come dice StartupItalia “Il problema non è che tipo di lavoro offre Foodora. Ma che chi protesta pensa che non ci siano alternative al lavorare da “dipendenti” per Foodora

 

 

 

Tag: Notizie Flash
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Massimiliano è un IT System Administrator con il pallino del blogging, scrivere è una delle due passioni. Nel tempo libero suona il pianoforte e fa volontariato ma spesso aiuta amici e parenti con lo SPID e cose simili. Si sta formando sull'applicazione delle normative in merito al trattamento dei dati personali nelle aziende e nei servizi digitali riguardo GDPR ma anche NIS2.

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